La loro Africa

Philip Larkin: Ricordo ricordo

E se io come individuo riflettente, nell’era duemila d.C., non volessi più il progresso tecnologico scientifico, se volessi evadere da quel mondo intelligente e normale, potessi magicamente enuclearmi dall’odierna preziosa civiltà, io lo farei. Certo sono favorito dall’attuale servizio sociale e politico e posso scappare, ho tempo da spendere per ragionare e contemplare una “possibile via d’uscita” da questo mondo che io considero “buco nero”; comunque ricambio questa evasione con una gratitudine che mi fa restare seriamente al mio posto di Birillo Democratico. E’ anche certo che io non potrò mai arrivare né a definire né ad abitare quel mondo desiderato, astratto, del mio inconscio immaginario e comunque per me possibile e migliore, anche se fosse un mondo pazzo, o malato, o un maledetto sogno.

Dunque, fermo restando che non posso distruggere tutte le attuali infrastrutture sociali (belle o brutte, esse siano) o le barriere architettoniche delle case d’oggi, né diminuire il numero della popolazione esistente, mi domando come sia possibile cambiare carattere e abitudini degli uomini, per rivoltare il mio attuale stato di “depressione” Post-Civile!

“Pronto, sono Mara Coccia: ciao Bruno, vuoi fare un’esperienza in Africa? Ti faccio fare un’esposizione a Dakar, sarebbe un’esperienza interessante per te, pensa a tutta la magia dell’arte africana. C’è Di Mauro, il direttore dell’Istituto italiano di Cultura, che cerca di portare giù artisti che hanno delle matrici nel mondo africano, guarda che Claudio Costa è andato già due volte, si è trovato benissimo, puoi lavorare con gli studenti dell’Ecole National des Beaux Arts del Senegal; faresti anche un’opera di informazione e insegnamento con quegli allievi che non conoscono e non vedono mai artisti internazionali.”

“Mara, sarebbe bello, ma lo sai che non mi piace viaggiare in aereo, quanto è distante?”

“Ma no, io sono già stata, mi sono trovata bene, ci sono 5 ore e mezzo, guarda che dovresti stare almeno più di due settimane”.

“Due settimane? Allora non mi interessa io devo fare un sacco di cose qua e poi ho i gemelli piccoli. Che lingua parlano?”.

“E’ stata una colonia francese”, “Ah, è l’unica lingua che conosco”.

8 marzo ore 23,30. Sono sbarcato da solo a Dakar.

Alla fine della scaletta dell’aereo, Alberto, lo scaltro e pungente direttore dell’Istituto italiano di Cultura di Dakar, che oltrepassate con semplicità le caotiche forze dell’ordine mi dava il benvenuto con le gote tirate.

Aeroporto piccolo e semplice, aria calda umida, forte afrore di mare, spezie e profumi pungenti, la capitale del Senegal è tutta sulla merlettata costa ovest atlantica. Lapalissianamente un viaggio è partire, ed è un po’ morire a vecchie abitudini e il nascere di nuove, proprio in un altro mondo.

Pensate alla differenza tra i viaggi di Marco Polo, nel Milione descrive passo passo il suo giornaliero andare dalla Palestina alla Persia, a Khambalik… dopo dieci anni di successiva ambientazione capisce profondamente perchè e come, per clima e religione, certi paesaggi, certi ambienti umani cambiano con una naturale mistura man mano che avanzano costumi e lingue. Oggi con le mie cinque ore e mezzo di quel “frigido aereatore” volante, poi di notte, all’oscuro, posso superare qualsiasi relazione e congiunzione sociologica e se sei un semplice rimani terrorizzato per non aver annodato quei paesaggi a significati politici filosofici umani di tutta quella distanza; certo, era avulso da me potesse essere una bellissima vacanza premio o semplice battuta di caccia esotica, ma mi sentivo un novello scopritore del disagio “altrui”.

Chi sarà Bruno Ceccobelli di fronte all’altro Bruno Ceccobelli africano senza più prefisso, come è non avere una figura o posizione sociale, culturale, artistica ed umana prestabilita?

Eccomi a Dakar con una sensibile coscienza o forse come bianco capitalista colonialista, libero di “viaggiare”. Ora comincia, anche se per poco, o per gioco, il rischioso misurarsi con l’assoluta indigenza e rovina, effetti culturali coloniali dell’occidente libero sull’Africa anonima e indifesa…

Quando sento politici e sociologi, fortemente motivati, parlare, con grandi cifre e forbiti discorsi strategici, di come i paesi del terzo mondo devono arricchirsi con appropriate pianificazioni consigliate e fornite dai paesi più civili, rabbrividisco perchè si cerca così, con un orribile mentalità, di sviluppare economie minori verso gli standards delle nazioni che vivono nel cosiddetto “benessere”. Allora mi rendo conto di come sempre più si vada invece a sviluppare la catastrofe economica e ambientale dell’intero pianeta. Occorre fare dietro-front e, per evitare questo olocausto mondiale, attuare una rivoluzione spirituale interiore, una metanoia, un viaggio verso la solidarietà umana. Per questo vi è la necessità di un grande obiettivo da raggiungere: l’empatia del nostro Sè superiore. Una vita rituale e simbolica contro il potere moderno “diabolico”. La mia legge di buon senso dice non è vero che devono diventare tutti più ricchi, ma è auspicabile il contrario, che i paesi ricchi diventino meno ricchi e che a tutti si consenta il lusso di vivere più poveramente; cioè più semplicemente, più naturalmente e in salute.

Davanti a Dakar tre attraenti isole rocciose forse vulcaniche: una brulla, dicono piena di serpenti impossibile da raggiungere se non vaccinati; la seconda, la più piccola, Ngor: “l’isola dei fantasmi”, per turisti snob; la terza, storica, ancora con architetture ottocentesche, senza macchine, con un’enorme fortezza, è Goré, l’isola degli schiavi, che lì venivano reclutati da altri capi tribù, dal cuore dell’africa centrale e poi deportati da bianchi capitalisti nell’America del Sud e del Nord.

E’ mattina. Hotel Ganalé, vuol dire in wolof, dialetto della maggiore etnia: “ospitalità”.

A proposito, primo shock: la sindrome di essere bianco, per fortuna sono italiano. Un razzismo perverso: i senegalesi si considerano i napoletani d’Africa ed io, italiano, sono napoletano. La sicurezza, comunque, era di trovarmi tra bianchi in un hotel bunker ospitale, pieno di palme, pulito, post-moderno, aria condizionata, ottima cucina francese e locale, odiosamente organizzato da bianchi duri, i libanesi. “Esco o non esco?” Da dietro i vetri della hall tutto sembra un po’ semplice, povero, forse molto sporco ma vivace e per fortuna distante. All’alba 6,30 con meraviglia ero stato svegliato dai canti invocati dall’alto dei minareti. Sì, sono musulmani, cinque preghiere al giorno e sono capitato nel mese del Ramadam, la loro Quaresima. Quei lunghi enfatici gorgheggi verso l’empireo, e che dall’alto rimbalzano da una moschea all’altra, mi facevano sentire, anche se ero rintanato a letto, consono a quelle vibrazioni invocanti; anche se tutti gli officianti stavano stabili nelle proprie case e attività, ma tutti in una immensa chiesa. E chissà come gli altri pregavano? Dall’alto veniva il controllo della fede, della speranza, una complicità uditiva di tutti, anche se involontaria, con i salmi dei versetti coranici, mattutina comunione entusiasmante, per me sembrava beneaugurante.

“Esco o non esco?” Li fuori più di uno di “loro” mi fa dei cenni.

I tassisti, i mendicanti, gli ambulanti tutti mi sembrano disoccupati e aspettano me. Che cominci ora, appena arrivato, il mio mal d’Africa?

Sono un artista, sono di una coscienza alta e poi è un’esperienza di solo due settimane, e poi è quasi una vacanza, sì, forse è un capriccio, lo racconterò. Certo tutto comunque è un rischio; vedo passare i primi lebbrosi, moncherini qua e là. Nel Ramadam non si può mangiare dalle 6,30 del mattino fino alle 18,30 della sera, non si può inghiottire neanche la saliva; vecchi, giovani, malati, distinti signori, bambini sputano in continuazione senza una piega con getto diretto omogeneo. Penso ai millenni musulmani di perfezione propulsiva salivare e mi stupisco della precisione del loro getto, getto che va tra la folla miracolosamente lasciando tutti incolumi. Al contempo la bocca dai bianchissimi denti è occupata da uno zeppo lungo 15cm, scorticato, color avana, di pianta esotica, considerato il loro dentifricio, lo masticano e con le mani lo agitano con vigore su e giù negli interstizi dentali per ore. In tutto il mio soggiorno non ho mai avuto voglia di provarlo.

Ma è tardi, devo presentarmi all’Istituto di Cultura Italiano: nella hall dell’albergo sento parlare italiano, meno male, non sono solo. E poi, tra una settimana arriva Sandro Vannini, è il fotografo avventuriero che è stato già molte volte in Africa e conosce bene Dakar. E poi, se ho bisogno ho tutta una lista di numeri telefonici di italiani che risiedono qua.

Mauro Petroni un artista che da dieci anni fa ceramica proprio qui. La signora De Pasquale che da vent’anni è proprietaria del Casinò di Dakar. Gianluca Mattioli con sua moglie Katia da sei anni contrattista all’ambasciata. Giuliana Stentella da un anno lettrice di Italiano all’Università di Dakar. Poi il caposcalo dell’Alitalia, l’industriale del pesce, il pittore di Rimini, Bruno Brunetti esploratore antiquario, Franco l’insegnante di Kajak.

Fa troppo caldo, non posso uscire vestito così, non riesco a credere che ieri a Todi c’era la neve e qui ci sono +30E; per fortuna, di nascosto, mia moglie mi ha disfatto la metà sotto della valigia e ha messo indumenti estivi.

Dovrei affrontarla, dovrei fare questa esperienza esotica, ma… “non esco”.

Le donne e gli uomini che se lo possono permettere indossano abiti, molto eleganti, della loro tradizione, lunghe tuniche di stoffa fresca, ricamate d’oro per gli uomini e stoffe trasparenti e variopinte sfarfallanti per le donne. Per loro una tunica è un drappo di colore viola, è il più bello, sulla loro pelle nera è come una seta speciale a riflessi verdastri. Alle loro labbra si addice il violetto e gli ombretti celesti intorno alle palpebre, in testa elaborate treccine con ariosi copricapi. Sembrano esseri di una razza forte e allettante: alta e snella, collo lungo, viso rotondo, naso occidentale, il sedere delle donne è molto sporgente, a sedile; comodo nelle madri, molti bambini vi si accovacciano anatomicamente, hanno larghe spalle, petti alti, per le ragazze seni distanti, corti e dritti come davanzali, gambe affusolate, tutto l’aspetto è fiero e regale.

Per via delle vecchie deportazioni sono le progenitrici delle genti brasiliane. Hanno sfarzosi fazzoletti in testa, camminano con delle pantofole traforate molto aperte di cuoio naturale.

Uomini e donne si salutano a lungo e indugiano con molti rituali, a volte si danno la mano, poi la portano al petto, poi alla fronte, a volte si baciano gli anelli, altre volte si baciano sulla guancia per ben quattro volte. Educati, quando sbadigliano portano la mano alla bocca, poi alla fronte e poi ancora in alto con un gesto di scarico di energia verso il divino.

“Sì, devo uscire”, è più di un’ora che stento sulla porta di vetro di questo piccolo e comodo albergo in pieno centro di Dakar, circondato da Moschee, sudori e mosche più grandi del normale, il mio fortino di sicurezza…

“Ce l’ho fatta”, sono sul marciapiede, l’aria troppo calda, fetida, odore acre di rifiuti e profumi aspri di spezie e incenso, mi accorgo della sabbia fine che invade tutto, guardo le mie scarpe oxfordiane inadatte, i piedi già inondati. Pian piano, comincio per la prima volta, alla forte luce, alla soglia del quarantaduesimo anno, a camminare in Africa con attenzione deambulante evanescente come entità bianca che viene avvicinata, sfiorata, provocata, spinta da troppe o numerose altre entità nere come perse al senso. Quattro tassisti litigano per portarmi il più lontano possibile, un giovanotto scamiciato, sorridente, sdentato, mi vuole vendere le schede del Lotto, all’altro fianco un ragazzino di non più di nove anni, accucciato sta già pulendo le mie scarpe inglesi, scappo, pochi metri più in là si sta dirigendo verso di me un vecchio cieco che chiede l’elemosina: quattro metri più avanti un sedicenne tristissimo, a petto nudo, mi vorrebbe far comprare le sue canottiere, accenno un diniego con paradossale evidenza di misure per me troppo piccole, lui insiste. Vado sicuro evitando la sua direzione ma già ho accusato il colpo come un pugile che continua a dire si al suo allenatore ma che non arriverà alla conta del dieci.

Mi incanto nelle mie idiosincrasie da sopravvivenza, ancora un altro marciapiede ed un’altra situazione per noi stereotipata ma lì ancora più sfacciata. Una tata nera larga vistosissima trascina stancamente un bimbo grassoccio bianco, poco più indietro li segue la biondissima sorella dodicenne lentigginosa, lecca un gelato (“Come si fa a sparire da qua?”); in mezzo alla strada auto veloci a tutto gas innervosiscono polvere e carte e foglie, per gli africani si viaggia con molti modelli rotti o vecchi, troppo difficile dire la loro marca o i paesi produttori, per gli occidentali, delle nuove e lustre Jeep giapponesi o Mercedes. Ora mi colpisce un giovane tipo direi “El Loco di Picasso”, qui i pazzi vengono considerati sacri e sono impossibili da fotografare; vestito di straccetti colorati, ha appese addosso grandi scodelle di legno riparate a lungo con filo di ferro, si appoggia ad un bastone con tante cordicine, campanelli e perline, sporchissimo a piedi nudi con modi gentili recita una nenia ossessiva, chi può gli dà volentieri l’elemosina, sembra avere più rispetto dei suoi connazionali che degli stranieri. A me tutto ciò sembra molto folcloristico e mi evoca molte rivisitazioni romantiche, sono in dubbio se credere che quell’individuo veramente stia recitando, o no; fermo qualcuno, per chiedere se è sincero e tutti mi assicurano che è molto malato e molto sacro.

Il povero è un uomo Sintetico-Estetico, dove l’estetica dell’essere come chiarezza è sintetica alla sua povertà e turbamento, cioè nuda materia e quindi concettualità trasparente; ossia un effetto di ricca spiritualità da non sembrare vera.

Tutta l’atmosfera pesante e accecante per quanto è cruda mi fa camminare lentamente, bollito e frastornato dal gran sole mi trasporto dietro un codazzo di voci e un ronzio di suoni neniaci e di inviti inutili per le mie riflessioni. Oltrepassato l’elegante ingresso del mio hotel, metro di misura del mio consistente modernismo: i primi vicoletti con odori sospetti e sguardi increduli, bambini malvestiti, increduli, per i miei vestiti e la mia pelle, rigagnoli di fognature a cielo aperto, mobilia artigianale, vasellame rimediato, sabbia battuta dalle strade al pavimento delle casupole, negozi poveri dal fascino dello stanco commercio, sulle merci mosche a grappoli che punteggiano anche visi espressivi d’inconveniente dignità.

Meccanici che non hanno niente dei meccanici, nei loro disordinati oliosi garage, discussioni accese, anche di passanti intorno ai motori, spoglie di macchine e attrezzi a pezzi, tutto dimostra nessuna convinzione di mestiere e distanza dalla tecnica.

Boulangerie fabbricate vicino ai marciapiedi con vecchie lastre pubblicitarie in zinco, impossibile capirne la provenienza, con giunture casuali e colori esotici, il pane incartato senza indugio in carte di riviste o quotidiani o elaborati di computer con i dati delle povere illusioni dei paesi ricchi, palazzi addossati con facile ed ilare e sufficiente abusivismo. Butto l’occhio tra i rottami di un palazzo, un uomo in tunica lunga inginocchiato come per un baciamano con estrema correttezza, sguardo in alto, orina lasciando dietro di se una scia bagnata.

Qui non posso fermarmi a guardare il susseguirsi di piccoli chiostri variopinti rattoppati con tutta volontà; vendono varie mercanzie, frutta freschissima a volte già sbucciata e pesce essiccato (“Porca miseria”). E i venditori che ti offrono inopportunamente tirandoti e devo negarmi perentoriamente. Vado veloce. Perchè tutti questi senegalesi mi vedono, mi attirano come la mitica balena bianca o il pollo da spennare o una tombola!

Ma che ci sono venuto a fare? Che c’entro io? Ma quale dio, forse sto scherzando troppo con la mia vita! Io sono un artista, non un turista! Neanche posso dire pittoresco!

(Perchè il destino o Mara ha voluto tutto questo?) E’ troppo violento il passaggio. Ho paura! Non di annoiarmi, ho paura proprio, fisicamente e basta! Difesa della razza? Troppi africani!

Un dubbio che mi rende nervoso, forse non sono granché come artista? Altri miei colleghi non sarebbero arrivati a questo! Forse non sono un granchè anche come uomo, c’entra forse la mia parte femminile?

Mi confesso la poca generosità, eppure sono nato povero, in Umbria, a Todi, e il mio ideale è morire li, povero almeno, ma quanto ci metterò ad amare questo posto? E loro?

Mi sto ribellando al nuovo mondo!

Sopraggiunge sfrecciando, vispo, allegro, (per i miei sospetti incongruo) Di Mauro, con la sua Daiatsu grigia scolorita, mi spiega che la sua macchina viene lavata insistentemente per pochi soldi e molte maledizioni con stracci bagnati e sabbia fina da improvvisati guardiani e parcheggiatori assidui ad ogni fermata: “Presto andiamo alla Beaux Art, lì ti aspettano, hanno visto le foto dei tuoi quadri, anzi ci sono due ragazzi che ti vogliono adottare”. “Ah! Bene!” In tutta Dakar ho notato poca polizia, niente vigili e solo tre semafori, ai quali si apposta ogni sorta di umanità disgraziata, dai monconi di uomini su tavola con cuscinetti, lebbrosi bambini senza una gamba, paraplegici, donne eclatanti con gemelli qui portafortuna ed altri piccoli buttati suoi marciapiedi: questuanti, si dice, organizzati, dai Marabù. Alberto serra i vetri ed in italiano ripete sillabando “più tardi”, gli fa segno per la prossima volta, poi mi guarda e mi dice sorridendo: “Hanno un chiodo nella mano, speriamo che non ci righino la macchina, lo hanno fatto tante volte”. Io stupito rifletto e mi assento. Cerco un tono da turista, faccio molte domande meravigliate, guardo grandi spazi brulicanti di immondizia e ragazzi: “Vedi quella là è la stazione dei Car-rapid, non ci salire mai: gomme lisce, senza freni, una specie di carri funebri, privati, guarda che guidano anche malissimo. “Li guardo da lontano sembrano autobus molto colorati, di giallo, pieni di mercanzie e persone, poi ne incontriamo uno davanti a noi, gran fumo, è tutto un urto, rattoppato con scritte e simboli arabi, è un modello caravan della Renault, impolverato, i finestrini per il fresco sono senza vetri, da una parte, dove batte il sole, c’è una lunga tavola di compensato, la porta di dietro è sempre aperta e a tutte le curve e buche sobbalza pericolosamente e dietro sul predellino, fuori dal pulmino, un adolescente che dovrebbe essere il controllore, con una botta di mano sulla carrozzeria inventa fermate, poi in corsa ammicca e convince e sporgendosi invita i passanti a salire al volo.

Siamo all’ Ecole National des Beaux Arts, l’edificio, in mezzo a molti fiori, è più un ricordo di costruzione anni ’60 che una vera struttura scolastica; subito ho due pensieri: il ’68 e la Ex Jugoslavia, studenti molto liberi fuori da qualsiasi controllo, per loro indole o perchè futuri artisti, e poi i caseggiati così piccoli e sfasciati in una maniera così particolare da pensare a grosse bombe di miseria e trasandatezza.

Tutto è stato manipolato e scassato più volte negli anni, la sporcizia più fresca non è raccolta bensì stipata agli angoli dell’aula o del giardino, che è un enorme rottamaio di tutti i lavori dei ragazzi degli anni che furono, contornato da altissime palme. Pitture su carta o su muro e sculture incrinate, opere fantasmagoriche appaiono qua e là come reperti mai convincenti o esemplari. Porte e finestre come radiografate, muri con molti graffiti. Mi presentano il preside e tutti i professori, elegantissimi e profumatissimi da spenderci tutto lo stipendio, tanti grandi saluti e sorrisi a non finire. Capisco che la didattica è molto semplice. Faccio vedere i miei cataloghi, sono molto interessati, sorridono, mi sembra che conti solo la mia nazionalità. Io mi faccio coraggio e chiedo di visitare tutti gli ambienti scolastici. Ora mi accorgo dell’importanza di Sengor, presidente e poeta, premio Nobel, al governo negli anni ’60 per più di dieci anni, inventò e modernizzò in questa povera colonia tutto lo spazio della nuova cultura senegalese. Una grande università, che funziona nei molteplici settori delle scienze; fu lui a volere l’Ecole des Beaux Arts, una delle più importanti dell’Africa Centrale. Dakar è una città inventata da poco, è capitale dagli anni ’50. Prima la vecchia capitale colonialista era Saint Louis, distante 300 Km verso il nord. Lavoro una settimana alla scuola, con i ragazzi molto timidi e silenziosi, affascinanti nella loro fisicità e nel loro abbigliamento, molti Rasta. Le ragazze sono molto sospettose e timide.

Nella scuola non c’erano materiali da lavoro, molti li avevo portati, mi avevano anche avvisato che alla fine magari li avrei dovuti lasciare: come dono prezioso. Ho lavorato molto e con ottimi risultati; ho completato più di dodici tele.

Ogni volta che mancava un pennello, del colore, qualche chiodo o una certa colla, se ne interessava Sek, un allievo che, partendo la mattina senza chiedere il permesso a nessuno, tornava il pomeriggio con il minimo dei materiali richiesti e senza il resto. Gli allievi hanno apprezzato le mie carte giapponesi preparate con molte sovrapposizioni, portate dall’Italia, avevo incorporato in esse anche oggetti di lieve spessore. Ho composto disegni con una gamma di colori molto vasta, ma quello che mi ha più meravigliato è l’aver cambiato totalmente tecnica e l’aver cominciato a raffigurare dei simboli con tante linee spezzate e violente. Punti come un ritmo musicale ed ossessivo. Linee orizzontali, il deserto. I punti, i battiti dei tamburi che risuonano dappertutto, nei mercati attirano i clienti. Mi hanno parlato di una danza rituale, dove le donne freneticamente si eccitano ai colpi ritmati dei tamburi, suonati dai maschi.

La natura ai tropici rende tutto più grande: i baobab, grandi alberi con un fusto di sei metri di circonferenza. Gli indigeni, tagliata la corteccia spessa 15 cm, ci fanno una porta e possono abitarci dentro, i rami sono folti e scheletrici. Poi ci sono i flambant che in primavera hanno una chioma gigantesca tutta di rosso con una circonferenza di 40 metri, grande ombra e grande cinguettio di uccelli, le bougainvillee, che io conoscevo solo di rosso-violaceo, lì appaiono enormi e di tutte le gamme di colori, giallo, bianco, rosa. La frutta diviene ben matura e con gusto altero, zuccherino al massimo, il sole esagerato, affatica e penetra con violenza occhi e iridi, tutto è più sfolgorante, ci sono migliaia di varietà di pappagallini, con tante sfumature, molti sono in gabbiette piccolissime pronti per i mercati, la città è piena di nibbi. Ogni tanto un venticello afoso, salmastro polveroso e poi quella sabbia che entra in tutti i pertugi, fine, fastidiosa, come polvere di vetro, rende la passeggiata affossata, con un senso di pesantezza incomprensibile. Del resto siamo all’equatore, e c’è più forza di attrazione terrestre.

Un pomeriggio sono stato sulla spiaggia oceanica, rumorosa come cassa supersonica, onde impetuose che creano una fascinosa nebbiolina, la riva ampia, bianca, rosata, compatta, non ci sono immondizie, pochi arbusti e delle enormi buche, sono le tane dei voraci granchi che la sera escono e lasciando lunghe scie arrivano perfino a mangiare le insalate nei giardini dell’entroterra. In riva al mare, di un colore verde erba, da un pontile al tramonto ho visto a pochi passi dalla riva nuotare docili pesci a colori bizzarri che nella loro piccolezza superavano un nostro panciuto maialino.

L’ISOLA DI GORE’

L’Africa Nera è stata per me come un incidente a 200Km all’ora, un impatto, uno svenimento, prima un susseguirsi di emozioni, poi un malessere per presunte minaccie fisiche che al ritorno in Italia mi avrebbero causato gravi angoscie di soffocamento, imprevedibili. Il solerte Di Mauro mi preparava spostamenti turistici che io consideravo sempre più degli agguati al mio perbenismo d’artista progressista.

Mustafà Dimè, ottimo scultore di quella scuola occidentale che guarda l’arte africana, mi aspettava alle 9 del mattino, dell’unica giornata ventosa, al molo del traghetto per Goré, l’isola degli schiavi. Non c’è certo burrasca eppure il traghetto, bianco e verde scorticato, è allagato qua e là e i figli piccoli e biondi dei turisti ci sguazzano. Partiti dal molo, penso a Venezia, ci sono molte assonanze. Goré, l’isola dall’architettura settecentesca rossastra, si sporge nel mare con finestre strette e cornici bianche, da lontano sembra come quella Degli Armeni nella laguna veneta. Mustafà è in un camice smeraldo chiaro, bordato d’oro, il vestito tradizionale, antico e apostolico. Sono certo che a molti, questi vestiti con arabeschi damascati, ricorderebbero una poltrona o la tenda di un salotto borghese; metà della popolazione li indossa con grande dignità. Mustafà è una persona molto educata e tranquilla. Quel giorno è anche molto soddisfatto; sorride ogni volta prima di parlare, mi racconta che ha appena ottenuto una bella sovvenzione dal governo filosocialista per restaurare il suo futuro studio a Gorè in uno dei bastioni a picco sul mare. “Mustafà è anche un capo religioso”, mi aveva informato aggrottando le ciglia Alberto.

Goré ora rifiorisce di alloggi restaurati da artisti e intellettuali. Parliamo della crisi economica che lì non sentono in quanto non hanno mai vissuto nessun boom se non i bum-bum ferrosi della dittatura socialista di Abdiuf, o quelli improvvisi di qualche rivoluzione e controrivoluzione. Mi racconta delle donne, e mi dice che è molto difficile sposarsi ed avere dei figli, oggi la situazione è pesante anche lì, poi, da buon musulmano, mi fa capire che ne ha qualcuna di troppo e che bianche o nere mal si sopportano.

Il giorno prima era arrivato da St. Moritz il fotografo esploratore e subito, da buon viveur, appena sceso dall’aereo, mi aveva dato, per telefono, un appuntamento alle 10 all’isola degli schiavi, per un servizio sicuramente affascinante; mi aveva anche supplicato di vestirmi un po’ più all’africana, le mie pronte rimostranze erano state secche. La settimana prima avevo provato e riprovato, nella mia stanzetta del Ganalé, ad inserire uno spezzato esotico, prima sopra poi sotto, ma il melange era stridente e del resto vestirsi con un saio da africano era per me un blocco, avevo provato e riprovato anche quello davanti allo specchio, tutte le varie recite sembravano un insulto ai loro veri drammi e necessità. Mi sembrava una buffa carnevalata per nascondere ancor più il mio ruolo prestabilito di bianco che quindi sarebbe stato visto con sospetto, instaurava altresì in me ancora altri dubbi sulla mia sofferta identità. Quello che voglio dire è che lì pesava essere occidentale, far finta di stare dalla loro parte o essere alla pari, con quella pelle lì non c’era “segno” che tenesse. Credo nella reincarnazione, credo di essere stato una volta un nero e di volerlo essere ancora, ma pensavo e mi rammaricavo dentro di me sempre di più perchè qui in Senegal non ero missionario o un politico o un guerrigliero; essere turista qui, per me, era da folli e così essere un artista e fare un’esposizione era sicuramente da masochisti. Che cosa potevano i miei strumenti: i miei colori le mie icone, cosa potevano di fronte a tutti quegli interrogativi come ferite che mi pungolavano; interrogativi di un comune sospettabile turista o africano per caso?

Traghettando arrivo al faro della fortezza dietro una lunga darsena, spunta Vannini, abbronzato, gravido di macchine fotografiche e rullini, grida, si sbraccia, mi saluta con un cappello di paglia molto adeguato: “eccolo là uno che sa viaggiare!” “Io non ero certo un NDA come affermavano i miei bambini ai loro compagnetti di scuola, nda = navigatore d’Africa.

Sì, sotto mi ero vestito come un vecchio stupido figlio dei fiori, per non deludere il fotografo, ma sopra senza stile e senza nascondere la mia vergognosa ambizione d’esploratore avevo un giaccone marrone anonimo ed uno strano cappello di feltro grigio afgano, molto ammirato, che però mi rendeva persiano, ed ero tutto dissimulante, inutile abbigliamento perchè troppo caldo e come tutto quello che avevo nei miei pensieri, troppo pesante. Le riprese fotografiche iniziarono molto prima che sbarcassi; a rivedere, in Italia, quell’immagine, in un traghetto abbastanza pieno di africani ed io lì in mezzo, faccia insospettita, rimuginai molto sulla mia vera sorte, e mi risultò sempre più essere proprio quella l’antica barca di schiavi e io là in mezzo, quale infame presagio!

Riecco le famigliari scene del film “Radici”, no, sono solo schiavo-schivo del mio destino.

Gorè è poco abitata e silenziosa, un piccolo porticciolo, all’interno case basse, occidentali, con tante scritte musulmane, un solo ristorante, un posto di guardia ed un museo della schiavitù, ancora, mi dicono, incompleto (sic!) E poi tante stradine selciate tra la sabbia, sempre in salita. Gorè è un isolotto sassoso montagnoso senza nessuna auto e poche piante. Molte roccie ossidate, rosso scure. Sandro Vannini più volte mi invita a spogliarmi e mostrare il mio look casual folcloristico. Resisto fingendo di interessarmi serioso a Mustafà ed ai suoi amici pittori che vivono come anacoreti in piccoli studi roccheforti, restaurati con enormi pietre, erano stati luoghi di vedetta dell’antica fortezza a guardia dei preziosi schiavi. Mi avvicino ad uno di questi studi: case matte, con porte enormi e di ferro, possono sembrare anche piccole e asserragliate casseforti arrugginite dalla salsedine; sento una voce femminile, sono curioso finalmente di conoscere un’amante di un pittore senegalese, mi affretto affettatamente sbilanciandomi verso il mare per oltrepassare la piazzola rotonda sporgente sui dirupi davanti all’entrata dello studio. Sorpresa! Una simpatica ma vecchia signora bionda olandese, non certo consanguinea né parente. Il pittore e l’amica mi offrono, gentili, un Karkadè e mi fanno sedere in mezzo a dei quadretti naive, e giù uno scroscio di foto del fotografo segugio. Più tardi, sul traghetto, sulla via del ritorno per la terra ferma, al tramonto in un momento di sovrappensiero faccio domande al mio nocchiero, lui timidamente sorride, guardo altrove, e mi risponde: “quella signora sta vivendo la sua seconda giovinezza.”E mi fa intuire anche che non è la sola in città e che quelle zie straniere spendono bene la loro pensione. I quattro pittori che visito sull’isola sono tutti oppressivamente surrealisti, figurativi e\o simbolici, ma con poca personalità. Le insistenze del fotografo sono sempre più spudorate, eccitato, mi vuole fotografare insieme all’artista dentro il suo mini atelier, scalzo sopra le sue stuoie davanti ai quadri naive, fuori sullo sfondo del mare con a fianco un quadro indigeno; i media che fantasticano sulla realtà banalizzandola. Sugli schiavi di allora e i pittori di oggi: anche noi schiavi delle catene della materia e dei colori, eppure negli anni ’70 gli artisti americani concettuali credettero e lavorarono molto per liberarsi dell’impurità delle cose. “Arte, idea, come idea” Kosuth, ma ben presto si accorsero che quella libertà idealistica e artistica, rendeva ben poco alle loro tasche e a quelle dei loro mercanti. Il decennio dopo, facemmo all’opposto una produzione forzata di oggetti e quadri, sembrava meglio, l’artista diventava ricco in vita e i galleristi potevano aprire la seconda o terza galleria. Anni ’90 crollo di tutto: crisi generali e crisi e schiavi omogenei (schiavi sì, ma diteci almeno chi è il padrone da ringraziare).

Le stradine esterne dell’isola sono, in alto, radenti ai muraglioni e pericolose, il sudore rende ancor più sdrucciolevoli i miei puzzolenti sandali di cammello, tutto il tragitto è a capofitto su assolati faraglioni, il mare ottimo, pescosissimo, mi dice il signor Giuliani, l’italiano dei pescherecci, lo specchio prospicente è come un foglio verde di plastica trasparentissima.

Giù sugli scogli nonostante gli energici spruzzi ferma il mio sguardo un lucertolone, fisso, altero, oddio, la dimensione solita 50cm circa di verde-marrone.

Gli artisti di quella giornata, e di un’altra che ricordo in una sede di sindacato artistico, dove ero stato invitato, non mi hanno mai parlato di mercato o di quanto potessero valere i loro e i miei quadri, non parlammo mai dei loro né dei nostri critici, mercanti o collezionisti: che Limbo! Che irreale dimensione, questo mi faceva ancor più apprezzare la loro dubbia competitività professionale. Con questi colleghi sarei felice. Me li raffiguravo come una schiera di angeli. “Ma poveri negri”, mi portano di fronte alla “Porta del non Ritorno”, un angusto accesso ancora rozzo con stanze laterali enormi con piccole fessure; una “Porta” sul mare, là mi sporgo, là davanti si accostavano le golette puzzolenti, là i frangi del mare si riempivano di smarrimento, echi di grida, vesti e carni stracciate da catene, sudore nero. Giù le galere che scricchiolavano un’atmosfera infernale prossima ventura che mi facevano sentire, ancora schiavo antico. Sì, anch’io mi sono fatto pittore perchè ero schiavo,sono rimasto contadino fino a quindici anni e voglio liberarmi, attraverso il lusso di una fantasia pittorica o dell’illusione delle nuove scoperte, o l’uso delle nuove immagini, anche se queste a volte mi faranno soffrire prima di apparire. Chissà se qualche negro di quei tempi partendo da qui, è stato allegro perchè assetato di scoprire nuovi sogni lontani? Giornata gonfia di vento e di operine, nitida come la vista dei nibbi. A Gorè non aspettai la sera, per paura di troppa tristezza, quelle case, ancora, anche se invidiabili come posatezza e stile mi fecero rabbrividire per quei depart tragici che certo quei muri strisciati avevano fotografato e rifrangevano. Quella notte dormii meglio, dopo che un vecchio fascista toscano professore agronomo temporaneo all’Università: “oh Bruno! Basta con la buona coscienza, prima di tutto la schiavitù non l’abbiamo inventata noi, è sempre esistita nelle grandi civiltà dagli egizi in poi e quando arrivarono qui i coloni e portoghesi nell’Africa centrale tra le tribù era un gran commercio di prigionieri di guerra!”. E tra un bicchiere e l’altro di un buon vino francese e la sua persuasiva dialettica razzista, mi assonnai con buona pace dei miei lontani ideali egualitari.

Il lago Rosa

E’ Domenica, ci sarà qualcosa di speciale per me neofita di trabocchetti? Come sempre, anche qui tra quei pochi che hanno un lavoro impiegatizio, e sono solo i pochi bianchi residenti, loro pensano ai festivi, al week-end fuori città, anche qui che per me c’era tanto d’esotico al centro della città! Sicchè accetto un invito speciale proposto da una coppia di italiani molto cicaleccia. A 50 km da Dakar c’è una delle meraviglie del mondo un lago particolare, il lago Retba, completamente rosa: “ma stai attento se ci vai, dei miei amici sono stati rapinati di tutto. Poi la danese lì in albergo ancora zoppica, l’hanno violentata in tre, rubato la moto del fidanzato e gli orologi”. Così mi disse la signora siciliana sgranandomi gli occhi. “Ma no” la contraddice Alberto, “la scorsa estate ci ho portato l’ambasciatore, all’inizio era preoccupato, poi quando sulle dune ci siamo insabbiati si è divertito molto a spingere con tutti i ragazzi…”. Alberto m’infastidisce con le sue risatine sadiche; ma che devo fare, sono qui e che avrei potuto raccontare poi? Qualcosa deve capitarmi per forza. Sono in Senegal, in Africa, cose turche.

Stiamo al gioco e partiamo in quattro sulla piccola jeep guidata dal direttore piroetta e, a far da spalla ai cattivi presagi, Gianluca a metà strada comincia a raccontare seriamente che quella che vedevamo era la zona del “Mamba Nero”. Naturalmente dai suoi racconti non faceva capire che razza d’animale fosse, la moglie Katia sorniona sminuiva le balle del marito facendo intravvedere un fondo di verità… irresistibili ragazzi! Ma io che faccia avevo?

L’insofferenza per l’Africa era condita da dolori ventrali e da una continua diarrea con conseguente preoccupazione e cura contro il colera molto imprecisa e sproporzionata, che peggiorava la situazione.

In più ero solo, con nuovi amici di cui non sapevo valutare il grado di autenticità e di ironia e più ancor più in quei giorni, in questo paese sperduto, la situazione dell’ordine pubblico era tesa per via di alcuni risultati elettorali ancora non decifrabili (da due mesi), c’era una sommossa popolare guidata da giovani studenti e prima di uscire dalla città attraversammo vari posti presidiati in assetto antisommossa con rottami di auto bruciate durante la notte dagli universitari. Era per questi malesseri che anche nei più puerili scherzi che mi tendevano i miei compaesani e scafati indigeni ero propenso a impressionarmi. Un pericolo serio e reale lo avevo avvertito subito ed era il modo di guidare del direttore furetto che viaggiava velocissimo sulle poche strade asfaltate della capitale; per la verità ce n’era una sola a due corsie ed era dritta dal centro all’aereoporto, e le provinciali erano a una sola corsia, condite di profonde buche e gravidate da lenti e sbuffanti Car-Rapid. I lembi delle strade periferiche sono gremiti di sabbia e persone e animali che lavorano e vivono solo nei bordi della strada come unico indispensabile spazio economico e comunicazionale. Alberto sgusciava velocissimo e sfiorava tutti questi assembramenti per lui ormai non più degni di sguardi di meraviglia o commiserazione, era preso da una inusitata gioia d’autoscontro e quella povera umanità finiva per figurare solo come ostacolo a una sua prova d’abilità.

Questo rituale si evidenziò ancor più allarmando i tre involontari condannati passeggeri ospiti allor quando le strade di una sola corsia d’asfalto butterate erano affiancate da due strade laterali di sorpasso di sabbia battuta ocra rossa, alternative per un mutuo scambio di favore con gli automezzi che venivano nel senso opposto. Ma chi stabiliva chi dovesse cedere il passo o passare sulla destra o sulla sinistra?

Si ricordarono e si parlò di favolosi incidenti stradali. Per il nostro caro direttore c’era una sola goduria: il rischio e la sfida e per noi la sfiga di essere li dentro con lui. Dunque che bello, una novella e moderna tensone e i più fortunati come noi non avevano gli incidenti, ma grandi arresti di cuore. Sbuffavo, ripensavo all’incontro della civiltà moderna con l’Africa; c’era proprio un urto. Con l’occidente con quel turbamento nascosto cannibalistico velato da impeto vorace imperialista di conquistare il nero diverso: con armi, commercio, anche se dopo millenni ancor oggi faticoso, indigesto e impossibile d’incorporare.

Tutte queste accavallanti insicurezze non mi facevano sperare bene sulla nostra meta. Attraversammo una periferia e la speculazione, immancabili case a schiera bianche vuote e campi rettangolari, pronti ad essere affittati ai futuri ricchi della futura classe dominante, con tubi di corrente elettrica e acque che sbucavano come funghi dal terreno per eventuale lottizzazione, poi per molti chilometri c’erano enormi siepi di bouganvillee, ai bordi delle stradine tutte palme, montagne di banani e prima del deserto foreste di baobab e poi la savana.

Attorno al lago rosa inizia la terra senza ombre, il sole pungente, il deserto “ecco punta laggiù su quel Baobab più alto”, insisteva Gianluca. Nel deserto ci sono decine di stradine che si intrecciano e nessuna indicazione se non la conformazione scheletrita di qualche albero, vaghi cartelli stradali. Stupidamente pensai: com’è facile perdersi su una superficie così piatta, senza palazzi e viuzze; è come se lo spazio non esistesse, e la tavola desertica registrava solo le variazioni temporali della mia stanchezza.

Ecco i primi villaggi fuori della civiltà, però condizionati dagli scarti della civiltà. Semplici tuguri capanne di legno e tende, fantasia di vivere senza acqua né corrente elettrica, ecco è qui che vorrei vivere come anacoreta, catarsi dalla civiltà. O Allah, che fortunati.

Gli sparuti abitanti vigili salutano e sorridono ma noi all’interno della macchina serriamo in fretta i vetri, gli ospiti assicurano: “guai a fermarti: oltre a richiederti qualcosa all’infinito porterebbero via per inutile ricordo qualsiasi cosa della jeep che sia smontabile con le mani nude”.

All’ingresso di un villaggio una fronda di ragazzini tutti occhi e denti splendenti con mossettine danzanti fanno segno di rallentare, perchè poco più avanti sulla strada di traverso c’era qualcosa di pericoloso, uno sbarramento di terra smossa alto 30 centimetri. Da dentro la jeep gli esperti ridono e si ripetono: “Vai, vai, è un vecchio trucco”. Così Alberto con mio spavento tra gli infanti accelera ancora di più e la fragile dogana, la puerile diga cede sotto il nostro enorme peso di indifferenza, il misero pedaggio è evitato con grande schiamazzo, ci rincorrono e ci perseguitano e noi giù molleggiati a correre in mezzo al villaggio.

Nonostante la loro apparente povertà tutti i visi sono allegri e meravigliati e speranzosi del nostro distaccato e polveroso passaggio. Già mi vedo bollito da tutta la tribù, (“Che fortuna non abbiamo ucciso nessuno”).

La sabbia dorata-rosata, elemento incombente ineluttabile del paesaggio è sostitutivo di molte praticità per quegli abitanti: l’arredamento, la sabbia è la sedia è il letto, armadio è tavola è pavimento è bagno è lavagna è carta: tutte le spiegazioni disegnate con la punta del dito.

Essa è calda e fredda all’ombra, ed è anche campo da coltivare. Le strade attraversate da quell’allucinato jeepista diventano sempre più un luna park, grinzose e piene di vuoto. Gianluca calmo ci spiega dentro quel nostro stretto loculo motorizzato che per evitare il tremolio e le escoriazioni di cranio da denuncia ad Amnesty International occorre avere una velocità di 80 km/h, così la jeep si sarebbe stabilizzata, ma attenzione, se si supera questa velocità c’era il pericolo di sbandare e finire insabbiati ai bordi del grande divo deserto. La mia presenza assenza m’insospettisce.

Sono sempre più insospettito sulla mia capacità di apprezzare l’esotismo o di scoprire queste lontane bellezze.

Lungo le dure cunnette accanto a qualche baobab ragazzi seminudi chiazzati di fanghiglia in fila indiana corrono dietro ai loro giocattoli: un contorno di perimetro di filo di ferro sviluppa la forma di una riproduzione fedele di una macchinina teleguidata li solo sospinta da un nodoso bastoncino e penso alle differenti pedagogie e a quelle maledette e inquinanti costose pile che i miei figli esauriscono subito e poi non si sa dove cacciarle e noto come quei bimbetti esercitano una fantasia e una fatica costruttiva del fare e come invece da noi ai nostri pestiferi figlioli annoiati dal tutto già fatto a volte con quella abbondanza non richiesta non rimane che avere una fantasia distruttiva che sicuramente si sarebbe prolungata anche nel loro futuro. Si intravvede laggiù specchiante e afosa una striscia d’acqua rosa, oddio è proprio un rosa schocking: una delle meraviglie del mondo.

“Guarda, è così perchè è profondo solo due metri in tutta la sua superficie, è salatissimo tanto che sul fondo c’è un erto strato di concrezione salina e un plancton rosso lo colora; se tu ci vuoi nuotare è impossibile, galleggeresti come un turacciolo. Se hai ferite quell’acqua te le ustionerà ancora di più”. Costeggiamo le rive compatte di miriadi di qualità di conchiglie e una specie di spuma bianca, inverosimile, lunghi rotoloni di mousse di nitrato salino che viene da una leggera brezza spazzato come neve dalla costa fin su alla sabbia e sopra alla poca vegetazione del deserto. Dopo poco i primi accampamenti di frasche e teloni vicino a mucchi di sale sbrilluccicante di cinque metri di altezza modellati e siglati ognuno alla sua maniera dalle varie squadre d’operai, sembravano piccoli ghiacciai. Il sale veniva letteralmente raschiato sul fondo e poi gettato su una scura chiatta e trasportato a riva a spinta. Accanto un lavoratore metà acquatico metà busto visibile ma con la pelle piena di grandi macchie e righe di sale. Mi assicurarono avesse piedi e gambe spaccate da quell’acqua così rosa da sembrare una strana salsina che forse condiva quei tanti crostacei che lo abitavano. Quei lavoratori così piagati dovevano frequentemente uscire e lavarsi con acqua dolce che inverosimilmente si estraeva a poche decine di metri dal lago. Alberto ride: “Tra un po’ niente più lago e niente più color rosa”. Raschiando bucano il fondo e l’acqua se ne va.

Enormi e rumorosi camion si alternavano sopraccarichi di sacchi di sale. Qui caricavano e non scaricavano niente, e noi turisti unico contatto con la civiltà, “vedi!”, esclama serio Alberto. “anche qui mangiano il pane”. “e mbe, almeno quello”, rispondevo io. E loro: “li hanno rovinati, non coltivano più i loro frumenti e si fanno portare dalle città questo pane chissà di che cosa”.

Tra le altre cose che straripavano come stravacanze dalle città c’erano vestiti vecchi e qualche uomo ignaro della loro funzionalità indossava collant femminili neri rotti o maglie di lana sgargiante, corte e tarlate. “E lo sai”, aggiunge Alberto, “proprio qui c’è un’altra meraviglia della Renault, la corsa dei fuoristrada Parigi-Dakar, arriva lì”. Guardo in quel punto e vedo uno scheletro arrugginito di una pedana. Chissà se è vero, qui è tutto reversibile sogno e fame mostruosa e rara realtà.

Questa folle corsa e lo sfruttamento intenso delle risorse saline da tre anni veniva commerciato, stavano inquinando e rimpicciolendo di molto ogni anno quel petalo di rosa in mezzo a un deserto e la ricchezza a termine degli indigeni.

Anche qui prima di arrivare e alla partenza un nugolo di bambini fanno da vedetta, ridono, ti promettono, vogliono fermarti, solo questo. Hanno da venderti qualcosa di veramente bello, di prezioso, li tengono alti sul palmo della nera mano, li ondeggiano li fanno riflettere ai raggi solari. Sono i cristalli del sale, tinti con delle erbe, sono rosa, viola, ciclamini… non c’è tempo.

Il viaggio si conclude senza un incontro ravvicinato dei “Briganti”, merito di Alberto che in zona sospetta fila come il vento. Verso sera le acque del lago offrono un’altra meraviglia, il sole radente colpisce le onde e crea delle ombre blu, s’increspano dei colori rosa e blu.

In quel momento il lago è abbandonato dai lavoratori, e si abbandona in noi anche la paura d’esser persi e aggrediti dall’altro, la sensazione di provare un eccezionale vuoto del deserto e il pieno della povertà, il rischio di restare vivi o provare l’iniziazione che ti farà grande se riesci a raccontarlo.

LO STREGONE

“Bruno, dai, tu che ci credi, ti facciamo fare una divinazione da Alberto”. “No no, io non ci credo, è Abadù lo stregone”, sghignazza il direttore.

Per arrivare al villaggio di Abadù bisogna attraversare una ventina di chilometri nel deserto dal lago Retba a nord verso la costa atlantica; là Gianluca e Katia hanno un loro posto segreto e bellissimo.

Prima di iniziare la galoppata ci sono dei frenetici preparativi, le provviste e una preoccupante discussione sulle ruote della jeep tra Gianluca e Alberto, su fino a che punto si dovessero sgonfiare le ruote.

Accidenti, mi ero allontanato preoccupato di non farmi notare, per una mia turbolenza interna dietro un albero secco.

Camminavo a fatica, affondavo su quella sabbia soffice e compatta, eppure riuscivo a pensare amenità da raccontare come: “Se i bianchi la fanno nera, i neri la faranno bianca?” “Accidenti, ma avete messo a terra le ruote. E dopo come facciamo a tornare in città?” Mi risponde ridendo la Katia. “Niente paura, ci sono i ragazzini”. Questa era la frase che più si ripeteva e che più mi rimbalzava senza senso. Gianluca è ora la nostra unica guida in un mare di sabbia e vento rabbioso; intorno il nulla visibile. Lui da due anni si è fatto affittare dal capo villaggio un campo vicino al mare con bungalow, pozzo e piccola serra; spera di poterci fare un maneggio e sfruttare a fini diplomatici e turistici. E’ tutto un susseguirsi di sue grida concitate: di “Accellera, accellera”, normale normale, loro seguono una strada per me immaginaria. Io sui sedili di dietro con le mani in testa per via dei violenti avvalli sono prigioniero di una esecuzione superiore alle mie aspettative, mi faccio forza e come quando vado in aereo comincio a pregare in quel modo strano che assomma tutte le litanie più famose di tutte le religioni. Ave Maria, Nam Myoho Renge Kyo, Allah sei grande, Are Khrishna, Are Rama. Dopo mezz’ora di ripetuti e frenetici “Vai a destra, vai a sinistra, dai dai accelera”, comandi perentori per non insabbiarsi, arriviamo a vedere delle casupole in cima ad una duna, un po’ squadrate e un po’ rotonde, tutte di un medesimo colore marrone-avana, sembrano di materiale metallico, due tre alberi malandati in mezzo al villaggio sul palo più alto sventola un’enorme bandiera della Renault. “‘Sto stronzo di Abadù, gli ho detto mille volte di levare quella bandiera”, esclama Gianluca un po’ seccato come un ospite che non riesce a far trovare tutto in ordine ai forestieri nella sua villa effimera, sui granelli di sabbia. Passiamo in mezzo al villaggio e per andare verso la costa tutti gli indigeni ci battono le mani e qualcuno scappa per la timidezza. Anche qui “Vai, vai, non ti fermare”. Tutto questo atteggiamento di fuggiaschi mi opprime e disturba la mia sopraffatta coscienza.

“Accidenti, salutiamoli scambiando un segno di pace. Ma quali sono le mogli di Abadù?” “No, no, sono tutte brutte”, mi risponde Gianluca da dentro la jeep, “non sai quanto sono noiosi, non te li levi più di dosso”. Intanto Alberto si è trasformato per la sua gioia in kamikaze e affronta con vere picchiate e relative risalite le dune imprevedibili. A ridosso dell’oceano il rumore delle ampie onde è tale da essere paragonato a quello di un jet su una pista. Intorno ai bungalows c’è una folta foresta di eucalipti. Mi allarmo, balbetto: “Ci sono dei leoni, serpenti, coccodrilli?” Nessuno mi risponde, cercano Abadù, ma trovano solo un suo fedele servitore indolente mentre dorme sulla fresca sabbia della capanna che è considerata la cucina. Abadù è capo villaggio e stregone di 250 anime solo nere, cinque mogli e 27 figli compongono la sua famiglia.

Il servitore dopo un’ora ci porta il capo: alto, allampanato, saio marrone con semplici decorazioni, naso lungo e orecchie a sventola, denti rovinati, da lontano sorride. Intanto noi già rossi e in costume avevamo perfino portato una zuppiera di pasta fredda italiana.

Per me l’emozione è tale che quanto più si avvicinò a noi lo stregone tanto più io decisi lasciando tutti esterrefatti di fare una passeggiata sulla vasta e compatta riva atlantica. C’è vento e nebbiolina che sfuma tutte le distanze, compresi i gabbiani che starnazzano in quantità. Solo in mezzo all’immensa solitudine sulle dune vicine e nella spiaggia trovo un’infinità di orme e cicche differenti ma anche strani fiori piccanti e erbe grasse accavallate disposte su tutto. Ero in solitudine da un quarto d’ora, sdraiato al sole, avevo raccolto dei mega ossi di seppia e con altri più piccoli mi ero messo a scolpire un viso a grandezza naturale nella gessosa polpa. Con gocce di sudore, mi guardo spesso intorno memore di tutti gli scherzi e delle dicerie sui ladroni, non mi fido. Laggiù all’infinito vedo offuscato quello che per me poteva essere un tuareg che cammina a piedi lungo la costa. Penso: non è un pescatore, cammina, viene verso di me e non si ferma mai a raccogliere niente, ma quanto sarà alto, ma quanto sarà vecchio, perchè ci mette tanto ad arrivare, guardo le dune dietro di me, i miei amici sono molto più indietro, tutto come in un maledetto film di suspence, misuro il tempo della fuga, penso di farcela e intanto nascondo l’orologio, un ciondolo d’oro, l’anello sotto il pareo, cerco di essere tranquillo e scolpisco velocemente. Si, viene verso di me ma va pianissimo, allora io cerco di dimostrare che tutto è normale, lascio la mia duna e vado distante a bagnarmi i piedi nell’acqua ghiacciatissima, evito le enormi buche degli enormi granchi e mi accorgo di quanto sono diventato rosso in così poco tempo.

Lui tutto bendato di celeste, ventenne, più piccolo di me, mi passa dietro venti metri, mi guarda, oh dio, non vorrà vendermi qualcosa, io faccio finta di interessarmi a delle conchiglie molto spesse e consistenti, forse le posso usare come arma o posso fuggire nuotando. Un po’ di incertezza da parte del feroce tuareg, e poi si allontana dalla parte opposta, ma si, era un povero diavolo, doveva solo raggiungere qualche altro villaggio e la strada del lungo mare era sicuramente più fresca. Corro ai bungalow, sono le 4, la sabbia ora è cocente, arrivo alla prima capanna, mi getto dentro per refrigerarmi, uno strano silenzio mi assorbe. Qui intorno doveva esserci Abadù, io ancora sudo freddo, all’improvviso subisco un attacco, una pioggia di materiali secchi addosso al varco apertura della capanna era l’ennesimo agguato da parte di due italiani!

Comincio a capire che artisti di statura corpulenta sensibili e complessati e per la prima volta in Africa sono un vero “soggetto” d’ironia.

Ecco che mi soprassale quella sensazione di fuoriluogo da capsula spaziale; tutto il visibile, il sentito presente, particolare pungente ma in me, e tutt’intorno, un senso di silenzio sfuso di connessioni e ragioni come in una vertigine. Questo provai alla presenza del presunto stregone di uno sperduto villaggio senegalese. Lo guardai con attenzione per scoprire le mie potenzialità magiche, ma tutto il suo aspetto mi distoglieva dalla mitografia di un demiurgo nostrano, spilungo, un solo capo semplice, rattoppato, con aloni di unto, magro, sdentato, orecchie a sventola, occhi vispi e strabici, “al massimo poteva sembrare lo scemo del villaggio”.

Gianluca gli si rivolgeva un po’ in arabo, in francese e nella lingua locale (Schiarilli?).

Passa una mezz’ora di sorrisi e di veloci frasi di convenevoli con gli italiani prima che improvvisamente l’aiutante dello stregone gli ricorda con molto entusiasmo qualcosa che fa esclamare a Gianluca: “Ma vaffanculo, No! No!”. Abadù indicava insistentemente laggiù la nostra jeep. “Che c’è?”, faccio a Gianluca. “‘Sto rompicoglioni vuole seguire la finale della Coppa Campioni europea Milan-Benfica, cerca la radio”. “No! No! niente radio, Abadù, siamo venuti per stare tranquilli”. Catia allora per distrarre gli indigeni propone un gioco di società con la sabbia, di quei rompicapi da colonia marina a Cesenatico, difficili all’apparenza ma, scoperto il trucco iniziale, banali e ossessivi per la costanza dell’inganno.

Dunque tra quei spensierati villeggianti di sperdute dune i polli erano senz’altro lo stregone e il suo aiutante. Il gioco quello del quindici. Quindici piccoli bastoncini infilati a metà nella sabbia, in prima riga per 5, poi per 4, 3, 2, 1 a formare un triangolo; a chi rimane il bastoncino per ultimo perde. Tra gli italiani si fanno vari duelli alla pari, ma il più eclatante è tra la scaltra e abbondante Catia, con la pelle bianca, arrossata e sudata, e l’ilare, magro, nero consunto Abadù.

Il povero stregone perdeva sempre a ritmi più veloci, e più perdeva e più rideva. La mia coscienza liberista fremeva, ed io convinsi in maniera nervosa a dire “basta, ora spiegagli il trucco”. “Dai basta”. “Dai Catia, se tu gli spieghi il trucco lui potrà giocare con altri del villaggio e dimostrare la sua potenza, addirittura potrebbe conquistare altri pezzi di terra a altri capitribù! Ti sarà grato!”. “Allora guarda bene, Abadù”. Con l’aiuto di Gianluca c’è una lunga spiegazione in arabo, Abadù annuisce serioso, si riprende a giocare, riperde subito, sfuma tutta la nostra buona volontà!

Per rompere quelle futilità il direttore propone serio che Abadù faccia sfoggio delle sue arti divinatorie. Catia mi pressa perché io tiri fuori un Franco Sefar, che è la loro moneta; cerco ma non la trovo. Allora sbotto: “Ma che ci fa con uno spicciolo, se ha un pacco di cartamoneta sul petto? Aveva l’unica tasca visibile gonfia di soldi, allora tutti gli italiani ridono. “Sì, mica trova gli sportelli bancari, e poi che fa, li lascia a casa con cinque mogli e 25 figli? E dove li potrebbe nascondere se non ha cassetti o altri vestiti?”. “Sì, e poi come li può spendere se per mesi e mesi non va in città?”.

L’atmosfera si fa attenta, ho trovato una moneta che più o meno vale 200 lire, a gesti mi indica di sputarci sopra e tutti mi invitano a farlo, io esito, poi mi decido, il mago prende la mancia, la porta all’altezza della fronte come per ringraziarsi qualche divinità, poi la mette metà nella sabbia, fa una veloce spianata davanti alla moneta e con velocità comincia con molta perizia a comporre una specie di alfabeto morse nella sabbia, su più righe, poi rallenta, pare che faccia delle riflessioni, sottrazioni al lato del primo schema. Per dieci minuti va avanti seguito da tutti i nostri occhi incuriositi, poi inizia a parlare con grande fatica. Si dissente un po’ sulla traduzione delle prime frasi, ma il senso è: “Tu sei un uomo molto fortunato, importante, dovunque vai, trovi lavoro e soldi, ma stai attento, prima di comprare il cavallo devi costruire la stalla!”.

Prendo molto bene questo primo responso, e poi mi risuona molto nella mia concezione superstiziosa.

Comincio ad ammirare Abadù, e tutti lo stimolano a dire qualcos’altro. Abadù sorride, sembra imbarazzato per quello che ha ancora da vaticinare; anche qui dopo discussioni sulla giusta interpretazione i miei amici mi fanno sapere in coro che ho una bambina con un’altra donna e che ho scritto una lettera di spiegazioni alla mia prima moglie. Io rimango incredulo, e subito penso che se dice il vero, certo lo stregone non sa che esiste la monogamia del cristianesimo, e forse ha scambiato un umano desiderio di evasione monogamica per fatti già avvenuti. Ma quello che mi ha fatto svaccare tutto il vaticinio è stato l’annuncio che entro un mese sarei tornato lì con mia moglie; in quel momento ho provato un grande senso di abbandono, sono restato interdetto. Tutti si sono mossi verso un pozzo basso, ricoperto di frasche. Intanto Abadù ha raccolto quel Franco Sefar intascandolo, si è accostato agli altri cantando una nenia ottimistica. Mi ripetto che per me è solo una roba da turisti. Accidenti come sono fortunato, neanche qui uno stregone vero. Ricordo i suoi occhi suadenti e nervosi, il suo magro e cariato sorriso. Non poteva essere la sua veggenza una spettrale verità?

Infatti, alla luce dei futuri avvenimenti, il mio intuito non mi tradì. Mi sentivo ed ero molto buffo, mi ero cacciato in una situazione che sembra l’interno di una comica ma accettai tutto per amor dell’esotismo. E’ certo che pensavo continuamente passerà, passerà… Siamo di ritorno in pieno deserto, si ripetono i comandi urlati dal più esperto, altre gimcane e ottovolanti, poi si arriva alla savana e qui si decellera perchè le piste sono più sconnesse e le ruote sono, per me, inesorabilmente sgonfie.

Oltrepassiamo di nuovo il Lago Rosa. “Sìa, laggiù dietro quelle capanne i ragazzi ci gonfieranno le ruote”, dice severo Gianluca. “Preparate i soldi spicci”.