Luigi Meneghelli – Delle figure la fune fugata

L’opera di Bruno Ceccobelli ha sempre il fascino inquietante ed ermetico dei reliquiari, del deposito di tracce cariche di mistero, del sedimento di memorie sepolte eppure attive. Egli è mosso da un’ansia profonda di accrescimento visivo, che coniuga sulla stessa superficie i brandelli più minuti e spogli del mondo con il magma alchemico della pittura. Senza, però, che questo significhi elevazione dello scarto a essenza sublime, ascensione del banale a “palpito celeste”. Si tratta invece di investire ogni elemento di un’intima possibilità di fare immagine, di suscitare segni, di esprimere simboli. Ma se ogni cosa può diventare materia nuda, pulsante,malleabile, allora il lavoro dell’artista assume in qualche modo le valenze del demiurgo che fonda nuove occasioni, universi, musei spirituali. Il suo è un costruire, pensando all’indefinibile, all’etereo, se non addirittura all’ineffabile: è l’atto della creazione che si rinnova (plasmare la cera, trovare il fantasma del legno sepolto nel fuoco, impastare il caos del cosmo): è inseguire una veduta aldilà della presenza degli oggetti, intraprendere un viaggio che porta dal visibile all’invisibile, quasi aderendo al verbo di san Paolo (ricordato dallo stesso Ceccobelli) che dice che «solo ciò che non appare è eterno». E, questo, ben oltre le dichiarazioni dello stesso artista umbro in merito a un’ansia di armonia, di ascesi, di bellezza: anche perché, quando la bellezza diventa tema, essa rischia di farsi «discorso che parla d’altro», che situa, storicizza (Kant), mentre nel nostro caso si tratta di un evento che si produce sotto gli occhi, di un procedere infinito verso una irraggiungibile perfezione. Al punto che si può sostenere che Ceccobelli non dipinge quadri, ma crea situazioni (o è meglio dire visioni?) che non iniziano e non finiscono mai del tutto: sono delle figure funamboliche, degli spazi instabili, delle frontiere a rischio. II tutto, attraverso un severo rigore esecutivo, un fare e disfare secondo il rituale antico del fabbricatore d’immagini arcane, dove però il gesto e la manualità non sono ridotti a vizi, a tic ripetitivi, ma sono lasciati come sospesi, quasi a livello di semplici enunciati: pure allusioni a forme, a narratività che non vengono articolate e risolte, perché a contare non è mai l’illustrazione, la rappresentazione, la “retorica del messaggio”, quanto l’idea che sta dietro la forma, la traccia che sta dietro il gesto. Ogni immagine cioè si dà come una tensione “verso”, come un viaggio di conoscenza, come un incessante spostarsi dalla figura alla trasfigurazione. Atteggiamento, in fondo, romanticamente desiderante, utopico. Non però riferibile all’utopia radicale delle Avanguardie e ai suoi risvolti decostruttivi, nichilistici, ma un’utopia intesa nella sua accezione originale di ricerca di “un luogo che non esiste” o quantomeno di una dimensione concettualmente distante dal reale: assoluta definizione di un’ipotesi, di un “se”, di una volontà interrogante. È come se tutta l’attenzione di Ceccobelli fosse indirizzata verso un’arte declinata quale linguaggio iniziatico o quale ricerca che fa della forma un problema da rifondare incessantemente. In lui, non si esce da questo stadio interno, profondo, originario del creare. E anche quando sembrano farsi evidenti alcuni retaggi storici (sia a livello iconografico che operativo) non si tratta di passiva referenza nei confronti della solennità del passato, ma solo dell’uso del passato come intima abissalità, come età cosmogonica da evocare, da rielaborare.

Luigi Meneghelli
2003